Foggia – il procuratore Seccia: “L’antimafia sociale ci stia accanto”
“Questo non è il libro di Domenico Seccia. Domenica Seccia si è occupato soltanto di scriverlo”.
Il capo della Procura della Repubblica di Lucera ha parlato così, oggi pomeriggio, alla presentazione del suo “La mafia innominabile” (edizioni La meridiana, la casa editrice storica di Molfetta fondata da don Tonino Bello).
Modestia, certo. Perché Seccia è un tizio scostante, uno che sceglie di lavorare in silenzio e che si concede con il contagocce.
Non è uno da decine di virgolettati. Le sue conferenze stampa sono un omaggio all’essenzialità.
Ma nelle parole del Procuratore s’annida anche la naturale tendenza a non strafare, figlia di quella solitudine che è propria di ogni magistrato antimafia.
Alla fin della fiera, nella serata regalatagli a Foggia dall’associazione Libera e dalla casa editrice, Seccia è quello che parla meno di tutti. La sua voce è racchiusa nelle pagine, rapide e martellanti, del libro. Ma anche nel giudizio che gli altri consegnano alla folta platea. Forte, fortissima l’apertura dell’incontro foggiano.
Un video di pochi minuti, parola e musica di Matteo Salvatore, che mostra le immagini di una terra bellissima e cosparsa di sabbia e sangue. Sentieri battuti di pietrisco macchiati del bianco dei lenzuoli stesi sui cadaveri.
Vittime e carnefici che s’incontrano, si scontrano, s’ammazzano.
Monte Sant’Angelo e Sannicandro Garganico, la Foresta Umbra e l’eco dei cognomi del clan che hanno innaffiato la pianta della mafia, per anni camuffata da faida tra poveri e stracciati agricoltori.
RAFFAELE CANTONE - Quelli di cui ‘La mafia innominabile’ parla con dovizia di particolari. Già, il libro. “Ma è giusto che un magistrato scriva un libro?”, è la domanda più ricorrente fra i giudici. Se l’è chiesto anche Raffaele Cantone, persecutore dei Casalesi: altri nomi, stesse mattanze.
“Per anni – ragiona Cantone – siamo stati portati a credere che i giudici parlano con le sentenze”. Giusto, ma c’è di più. “Chi le legge, le sentenze? Non la gente, spesso neppure i pm”. Dunque, “è giusto che la magistratura smetta l’atavica pratica dell’arroccamento ed esca allo scoperto, al di fuori delle Procure”.
Agire, narrare, come un antidoto all’oblio, come una ricucitura sul vestito lacero della memoria: “Non raccontare quel che racconta Mimmo, sarebbe stato un favore alla mafia”. Cosa scrive ‘Mimmo’ è stato Cantone stesso a dirlo: “una mafia violenta, che si nutre di riti triviali”.
Il riferimento è all’episodio simbolico di Matteo Ciavarrella che, in un impeto di adrenalina, lecca il sangue della sua vittima. Seccia ne scrive definendolo un “rito vampiresco”.
E poi, Cantone si dice stregato dalle “storie di donne forti e tenaci: Antonia Alfieri e Rosa Lidia Di Fiore“.
E’ stata quest’ultima che ha catalizzato l’interesse del magistrato campano: “Una donna bionica, capace di sposare un Tarantino e tradirlo con un Ciavarrella, di donare due figli all’uno famiglia e due figli all’altra; infine, capace di tradire entrambi i suoi uomini con la fedeltà allo Stato”.
DANIELA MARCONE - Donne, come Daniela Marcone. Lei dubbi sul da che parte stare non se li è mai posti. Suo padre, Franco, è stato ucciso nel 1995 dalla Società. In teoria, più che di fatto. Nessun Tribunale ha emesso sentenze, malgrado la medaglia d’oro al Valor Civile che pende sul petto del ricordo di un testimone di legalità vero.
La Marcone, portavoce provinciale di Libera (in tandem con Mimmo Di Gioia, memoria storia del movimento antimafia foggiano), sposta il tiro, scendendo a sud di qualche chilometro rispetto al Gargano ed affondando radici proprio nel cuore del Tavoliere.
“Anche a Foggia c’è stato un tempo in cui la mafia non esisteva” racconta con voce calma ed occhi che oscillano tra il moderatore Michi De Finis e lo stesso Domenico Seccia. “Io stessa – confessa – avrei avuto tutto l’interesse a credere che non esistesse la mafia di fronte al sangue di mio padre sparso sulle scale del condominio in cui abitava”.
Era lo stesso tempo (e lo stesso luogo) in cui “quando abbiamo cominciato a parlare di una nuova mafia, la mafia del mattone, ci accusavano di sporcare la città”. Il tempo della morte. E dell’orgoglio. Nell’umido di quel sangue prese corpo la reazione.
Nacque “l’antimafia sociale”. “Un magistrato – ha ricordato la figlia del Direttore dell’Ufficio del Registro – disse una volta, presentando un libro a Foggia che l’antimafia sociale non esiste, che non è la soluzione.
Che l’antimafia si fa nei tribunali, nelle aule, nei processi”. Che il muro si sia frantumato, lo conferma la risposta data a Daniela dai magistrati Seccia (“Da sole, le sentenze servono a poco se non c’è, accanto, un antimafia sociale attiva ed operante”) e Cantone (“L’antimafia sociale è più forte di quella giudiziaria. Meglio mille insegnanti che mille militari”).
ELVIRA ZACCAGNINO - E’ una questione di cultura, insomma. In fondo, anche il libro del capo della Procura lucerina è una rappresentazione di cultura. Con un pathos emotivo deflagrante. Per inquadrarlo alla platea, l’editrice molfettana trova queste parole: “Ci sono testi che t’interpellano da dentro e che non si giudicano soltanto in base a metri editoriali. Quello del Procuratore è esattamente così”.
Un tocco di poesia e dieci di realtà. Un testo, lascia capire la Zaccagnino, fondamentale nell’iter del cambio di passo legalitario, necessario storicamente, per “rimettere ordine nell’idea di mafia”, per “riprendere a dare alle cose il loro giusto nome”. Un “libro sincopato”, emotivo a punto tale da “far sentire il fiato sul collo della mafia”.
Per dire, insomma, che la mafia c’è. E che, forse, si può anche vincere.
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da Stato Quotidiano