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Lucera: una città saracena nell'Italia medievale
"Quando ti apparirà da lontano l'arco ogivale di Porta Troiae vedrai in un
volgersi immenso di solitudine Lucera, dal chiarore infinito del grano, balzata
sui suoi tre poggi, potrà succederti che alcuni fra i più avventurosi fantasmi
della storia vengano a mettersi allato".
Così Giuseppe Ungaretti descriveva nel 1934 Lucera cogliendo da grande poeta il
respiro della storia tra i ruderi, le strade ed i palazzi della città.
A Lucera c’è stato un tempo in cui per le strade camminavano donne velate
e il canto dei muezzin risuonava dall’alto dei minareti. Lucera saracenorum
era chiamata, bella, alta di minareti e moschee.
Infatti, negli anni che vanno dal 1224 al 1300, la città fu abitata
esclusivamente da saraceni colà deportati dalla Sicilia – in particolare la
popolazione musulmana di Alcamo –su ordine dell'Imperatore Federico II di Svevia
che volle in questo modo pacificare l'isola e impedire le continue rivolte dei
musulmani che vi abitavano da centinaia di anni.
Si
può stimare che a Lucera siano stati trasferiti, non certo in un sol colpo, tra
le quindicimila e le ventimila persone. I suoi nuovi abitanti ebbero la facoltà
di conservare la loro religione e di vivere secondo le loro usanze. Fu così che
i saraceni, da avversari, divennero poi gli uomini più fedeli dell’Imperatore.
I musulmani avevano un proprio capo, il caid, propri organi di vigilanza, i loro
sheikh (anziani) e fakih, gli esperti di diritto o giudici. Alla comunità
islamica fu concesso di autogovernarsi secondo la legge coranica. Le loro
moschee e i loro minareti si vedevano da lontano. Finché regnarono gli Svevi, i
saraceni non ebbero motivo di lagnarsi della tolleranza loro accordata.
Morto Federico II, suo figlio Manfredi continuò a prediligere questa città forse
ancora di più di suo padre avendovi a lungo soggiornato nell'adolescenza e nella
giovinezza; veniva chiamato il "Sultano di Lucera". La popolazione tutta gli si
affezionò moltissimo e si battè sempre con lui sino alla morte. Nel 1261, Gamal
ad-Din, inviato del sultano d'Egitto in visita nel Regno di Sicilia, durante il
suo soggiorno alla corte di Re Manfredi nel Palazzo di Foggia, poteva infatti
rapportare al suo signore: "Presso il paese nel quale io soggiornavo, è una
città chiamata Lugiarah, gli abitanti della quale sono tutti musulmani di
Sicilia, e quivi si fa la pubblica preghiera del venerdì e si compiono
pubblicamente i riti dell'islamismo".
La fine del regno degli Svevi ad opera di Carlo d’Angiò, li vide combattere da
valorosi a difesa della casata dell'imperatore. Nel 1266 invano qualche migliaio
di saraceni si sacrificò sul passo di San Germano, presso Cassino, per impedire
a Carlo I d'Angiò di entrare nel regno. Altrettanto sfortunato fu l'eroico
sacrificio del corpo di arcieri lucerini, diecimila sembra, nella tragica
giornata di Benevento, il 26 febbraio del 1266.
La morte in battaglia di Manfredi a Benevento segnò il declino, ma non ancora la
fine, dei saraceni di Lucera.
Il clima morale e politico del tempo angioino non era più per i saraceni lo
stesso di quello svevo. La colonia non riuscì a risollevarsi dalla prostrazione
in cui era caduta. La produzione artigianale s'indebolì sotto i colpi pesanti
del fiscalismo angioino. La forte falcidia di braccia da lavoro nei campi,
provocata dalle guerre, impoverì le campagne.
Infine, la colonia venne improvvisamente aggredita e dispersa nel 1300, per
motivi che sono ritenuti soprattutto di natura economico-finanziaria, poiché il
monarca angioino si dibatteva in formidabili difficoltà di cassa. La vendita,
come schiavi, dei musulmani lucerini e dei beni esistenti nella loro terra,
avrebbe così risollevato le esauste finanze del sovrano.
Si diede il via perciò alla turpe e crudele azione, propagandandola come la "ricristianizzazione"
di Lucera.
Il 15 agosto del 1300 le truppe angioine entrarono con l’inganno in Lucera. La
lotta, che infuriò corpo a corpo nelle strette e tortuose vie della città e si
protrasse fino al 24 agosto, vide soccombere tutti i saraceni, uomini donne e
bambini. Arrestati e concentrati nella campagna, diecimila uomini, suddivisi in
gruppi, furono inviati in diversi mercati d'Italia per essere venduti come
schiavi. Si ignora la sorte delle migliaia che non furono venduti. Molti si
dovettero convertire al cristianesimo, altri si dispersero e col tempo vennero
assorbiti dalla popolazione locale. Solo qualche irriducibile preferì darsi alla
macchia e per alcuni anni ancora le campagne della Capitanata registrarono
numerosi episodi di brigantaggio alimentati dai saraceni.
Il governo angioino ricavò una somma che potrebbe valutarsi, al valore della
moneta attuale, in alcuni milioni di Euro.
Evacuata Lucera dai saraceni, la si ripopolò e la si ricostruì, attività che
terminò dopo 11 anni. La Lucera medievale che possiamo vedere oggi è quella del
1311.
Scompariva così, agli inizi del XIV secolo, l'ultima comunità islamica
riconosciuta e organizzata dell'Italia meridionale. Ogni traccia di essa fu
cancellata, tanto che nelle tradizioni locali ne rimase a malapena qualche
ricordo vago e sbiadito; la memoria, che ormai sfumava nei colori della fiaba,
dei minareti, dei guerrieri e degli arcieri saraceni, dei falconieri arabi, dei
cammelli, dei leopardi addestrati alla caccia, delle danzatrici, delle donne
bellissime e velate racchiuse nel segreto dell'harem: un frammento di Mille e
Una Notte deposto nella pianura pugliese, otto secoli fa, dal genio estroso
dell'imperatore Federico II di Svevia.
Nulla è restato di quei giorni,
solo l’eco lontano delle suggestioni, nella verde e nuda spianata racchiusa tra
le mura. Piccoli frammenti di ceramica istoriata, in caratteri arabi, col
monogramma di Allah, conservati nel bel museo cittadino di Lucera, sono le
sole e labili tracce che danno concretezza a quella storia singolare. Oltre il
portale d’ingresso della fortezza, infatti, tranne le spoglie fondamenta di
quella che fu una delle residenze imperiali, troverete il nulla, una grande e
vuota spianata, assenze più che presenze. E’ anche per questo che Lugiarah, il
nome della città in arabo, merita un viaggio.
Tuttavia
non è vero che della Lucera Saracenorum, araba e islamica, non resti più niente
Abbiamo già detto in passato del minareto di Vico de’ Sabini (vedi foto) e, a
Dio piacendo, ci ritorneremo. Oltre ad esso, è sufficiente fare quattro passi
per Lucera e far spaziare l’occhio al disopra dei tetti per notare numerose
torrette, ottagonali, tonde o quadrate, a punta di piramide o a cupoletta,
probabili minareti sopravvissuti al tempo, alla distruzione e all’incuria (e
chissà che i palazzi sottostanti non inglobino in tutto o in parte le relative
moschee!!). In via Zunica, nel primo slargo a sinistra venendo dal centro, è a
tutti visibile una casa araba con torretta. E’ evidente che la Lucera araba,
almeno la parte urbana, quella al di fuori della fortezza, non fu distrutta.
Sarebbe stato illogico per un governo a corto di denaro e per chiunque
distruggere il ricco patrimonio edilizio esistente per poi ricostruire
nuovamente la città. Sicuramente gli edifici furono riadattati per i nuovi
abitanti, secondo i loro usi, le loro tradizioni e le loro necessità, ed
aspettano soltanto di essere individuati nell’ambito di una operazione di
archeologia urbana e magari riportati a nuova vita.
E
nella fortezza? Che la fortezza di Lucera sia stata sino al 1300 la cittadella
araba per eccellenza è noto ai più. Per chi non riuscisse ad immaginare come
doveva essere la fortezza lucerina al tempo degli arabi, consigliamo di visitare
i borghi murati di Termoli e di Gradara, sicuramente simili a quella che doveva
essere la fortezza di Lucera in quel tempo. Anche a Termoli (vedi foto) e
Gradara (vedi foto), infatti, vi sono le mura, il castello o il palazzo del
Signore a ridosso di queste, e la città protetta dalle mura e dai dirupi
naturali, che la rendevano praticamente imprendibile. Il castello di Termoli,
anch’esso opera di Federico II, ripete persino, in piccolo, le forme del palazzo
imperiale di Lucera, e anche la sua posizione nel contesto della città murata è
identica.
Che all’interno della fortezza lucerina vi fossero delle moschee per il culto
praticato dagli arabi lucerini è ovvio e scontato. Il resoconto
dell’ambasciatore del sultano d’Egitto di cui s’è detto poc’anzi ne fa fede. Che
là dove ora sono le rovine della chiesa angioina di S.Francesco v’era la moschea
principale è risaputo. Considerato l’innalzamento del livello delle costruzioni
d’epoca angioina, costruite, queste si, sopra le rovine arabo-sveve, è probabile
che la moschea si trovi tuttora sotto le attuali rovine della chiesa, e che la
luce del sole vi entri ancor oggi attraverso quelle aperture esistenti nel
pavimento della diruta chiesa.
Ma per una città di almeno 20.000 abitanti, è normale che vi fosse più di una
moschea. Perciò, perchè non cercare di individuare, fra le rovine della civitas
araba lucerina qualcun’altro di quei luoghi di culto?
Ebbene, forse è stato più facile del previsto. Infatti, ai piedi della torre
della Leonessa o della Regina c’è un fabbricato rettangolare che già da tempo
aveva attratto la nostra attenzione. Presenta due sale rettangolari
sufficientemente ampie, pavimentate in cotto, materiale non nobile in quanto i
pavimenti delle moschee sono poi coperti da tappeti o stuoie. Alle estremità di
questi due locali, e ad essi collegati, vi sono altri due locali più piccoli di
cui uno sicuramente un bagno, adibito alle abluzioni. Esso è pavimentato in
marmo, in modo da poter essere utilizzato a piedi scalzi e bagnati, e presenta
due lastre di pietra in cui sono ricavati due piccole conche a mo’ di lavabi con
canaletto di scolo per l’acqua. Il fabbricato era preceduto, per tutto il suo
fronte, da uno stretto cortile probabilmente porticato. Si intravedono infatti
sul muro frontale della moschea i resti di semicolonne che dovevano un tempo
sostenere la copertura (Nella foto sottostante, il palazzo di Medinat az-Zahra,
presso Cordoba, aiuta ad immaginare il fronte della moschea lucerina, con le
semicolonne sul fronte).
Sparsi
sul posto, abbiamo individuato quelli che sono forse due pezzi di queste
semicolonne, uno in perfetto stato di conservazione e l’altro piuttosto rovinato
dal tempo, di pietra scura e scolpiti con motivo a palmetta, tipico dell’arte
islamica del tempo (vedi foto della fontana del Re nel Chiostro del Duomo di
Monreale presso Palermo).
Chi volesse farsi un’idea delle porte che doveva avere questa moschea, può
guardare alla porta ad arco a ferro di cavallo posta alla sommità della scala
del cortile della chiesa di S.Leonardo di Siponto, che risale più o meno alla
stessa epoca (vedi foto).
Tuttavia, l’argomento fondamentale a favore dell’individuazione in questa
rovine, di una moschea, è il suo orientamento. Muniti infatti di bussola per
l’individuazione della qibla, la direzione della Mecca, ci siamo recati sul
posto ed abbiamo appurato che essa è perfettamente orientata verso la città
santa dell’Islam!!
Alcuni dubbi tuttavia restano: non si è trovata traccia del mihrab, la nicchia
indicante la Mecca, però la grande esedra posta nell’angolo proprio sotto la
torre potrebbe essere tale, anche se sembra chiusa verso l’interno della
moschea. Potrebbe anche essere che, a motivo del poco spazio – infatti, anche
per chi edificò la moschea, si trattò comunque di utilizzare le strutture di
fabbricati già esistenti, probabilmente di origine romana - tale nicchia fosse
solo dipinta o appena accennata nello spessore dello scomparso intonaco (vedi
foto del mihrab del palazzo di Medinat az-Zahra vicino Cordoba o i mihrab delle
chiese di Budapest che furono adattate a moschee nel periodo dell’occupazione
turca).
Certo, non siamo archeologi nè esperti a riguardo, ma solo degli appassionati
guidati piuttosto dalla nostalgia di quel tempo perduto e dalla voglia di
riportare alla luce quel che – spesso di proposito - è nascosto. Ci chiediamo
infatti perchè in tutti i luoghi archeologici d’Italia, si conosce o si
attribuisce fittiziamente agli edifici delle funzioni e dei nomi, mentre a
Lucera tutto è sfumato, senza nome, senza alcuna indicazione di cosa sia o possa
essere la “cosa” davanti alla quale ci si trova.
Pertanto, in attesa che qualcuno ci smentisca e ci dica che cos’era l’edificio
di cui parliamo, così come le altre emergenze di cui s’è detto prima, noi li
chiameremo “la moschea della Fortezza”, “il minareto di Vico de’ Sabini” ecc.
Pace a voi tutti.
Lucera: una busta per ricordare Manfredi di Svevia. A 740 anni dalla morte del figlio di Federico II (6/9/2006)
Non solo Federico II, ma anche il figlio Manfredi è stato un esponente della
casata sveva degli Hohenstaufen che ha legato a Lucera alcuni dei momenti più
importanti della sua storia del XIII secolo. L’imperatore "biondo e bello e di
gentile aspetto”, amante delle scienze e dei dotti, sarà ricordato nel prossimo
week-end (9 e 10 settembre) dall’associazione culturale "Lugarah" in occasione
del 740esimo anniversario della sua morte avvenuta a Benevento il 26 febbraio
1266. L’iniziativa intende ricordare l’imperatore con una "busta" su cui è
rappresentato, oltre allo stemma adottato da Manfredi, cioè l’aquila nera su
fondo bianco entro lo scudo, il sigillo per bolla imperiale con legenda
rinvenuto nella fortezza di Lucera. A fare da sfondo all’intera busta c’è il
Palatium lucerino cosi come rappresentato nell’incisione di "Saint-Non" del
1786. La piccola opera sarà distribuita all’interno del castello lucerino
durante l’orario di apertura del monumento di sabato e domenica, oltre a poter
essere reperibile presso la filiale lucerina della Banca Popolare di Milano.
Alcune copie, inoltre, verranno consegnate all’Archivio di Stato di Fermo.