Islam a Foggia |
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Un viaggio alle radici dell’Islam italiano
L’occasione del matrimonio di un nostro nipote ci ha dato la possibilità di
realizzare un desiderio che coltivavamo da tempo: un viaggio in Sicilia.
Le montagne aspre e severe che incombono su Palermo e sul porto, che sembrano
voler tratteggiare l’anima stessa della città, misteriosa e arcigna al primo
impatto, ma dolce come solo sa esserlo una città mediterranea, ci danno il
benvenuto. Varchiamo i cancelli del porto della capitale siciliana e subito una
svelta autostrada ci conduce, tra incredibili panorami, in quel di Alcamo,
l’araba al-Qamah.
Alcamo e Castellammare del Golfo
Il viaggiatore andaluso Ibn Jubayr descriveva Alcamo come un centro “grande,
opulento, provveduto di mercato e di moschee, tutti musulmani gli abitatori, al
par di quelli delle masserie che giacciono su questa strada”. Arrivandoci
dall’autostrada è con gli occhi di Ibn Jubayr che la immaginiamo, lì, nascosta
dietro l’alto pianoro che l’accoglie, perchè di tutto quel che egli vide, oggi
non resta niente. La città è infatti una grossa scacchiera settecentesca,
postuma rifondazione del casale arabo abbandonato a forza dagli abitatori
musulmani a seguito delle terribili repressioni federiciane che seguirono la
loro sollevazione. Come sposa senza più il suo innamorato, questo come molti
altri casali, sfiorì e morì, per essere poi ridestato, dopo qualche centinaio
d’anni, dal bacio di un principe o di un feudatario che lo ripopolò con i suoi
massari e servitori.
Dopo un abbondante assaggio di “cassatedde” a Castellammare del Golfo, ed una
passeggiata sulla spiaggia deserta di questo centro - l’araba al-Madarij, le
Scalette - di fronte allo scenario di un incredibile mare turchese - almeno per
noi che si è avvezzi al celeste dell’Adriatico - ci disponiamo alla squisita
ospitalità del signor Mario e della signora Dora, genitori della sposa, una
solida famiglia della quale ci colpiscono soprattutto l’attaccamento alla casa
della signora, un valore tradizionale che non possiamo non apprezzare. In virtù
di questo attaccamento, nonostante il daffare per i preparativi del matrimonio
che dovrà avvenire il giorno seguente, la signora Dora non manca di farci
assaggiare, tra le altre cose, alcuni di quei cibi, tanto semplici quanto
gustosi, che caratterizzano la cucina siciliana: melanzane fritte e panelle. Ah,
ecco le famose panelle del detto “mazze e panelle...”!! Non avevamo mai capito
cosa fossero e qui le abbiamo mangiate. Ecco, da queste panelle inizia il nostro
viaggio a ritroso nel tempo, che per ora ci porta indietro di due sole
generazioni, quando, bambini, sentivamo nostro nonno pontificare con nostra
madre: “Mazze e panelle fanne i figghie belle!”. Ancora non lo sapevamo, ma dopo
i giorni dedicati al matrimonio in programma, questo viaggio, che credevamo
dovesse essere un breve e semplice scampolo di vacanza, doveva sorprendentemente
assumere il sapore di un pellegrinaggio verso le nostre radici di musulmani
d’Italia.
Segesta
Quando
alfine il viaggio incomincia, la prima tappa la facciamo a Segesta, l’araba
al-Hammah, dove visitiamo dapprima il meraviglioso tempio la cui pietra
rosso-dorata si fonde meravigliosamente, insieme alle agavi, nel paesaggio
circostante; poi ci arrampichiamo all’incredibile teatro, aperto sullo splendido
scenario del Golfo di Castellammare.
Alle spalle del teatro ci soffermiamo pensosi sui resti della moschea, un
piccolo rettangolo tra quattro mura di pietra sporgenti appena fuori terra, con
il mihrab orientato alla Mecca. Questa moschea, non molto tempo fa, fu
simbolicamente “riconsacrata” dalla preghiera dei fratelli Salman e Omar,
italiani ritornati all’Islam, guidati nell’occasione da un imam tunisino. Il
fatto fu immortalato in un documentario di Pietrangelo Buttafuoco curato
dall’Istituto Luce.
Interessante e da meditare la storia di questa moschea. Quando essa fu
edificata, i musulmani erano già stati sconfitti e l’ultima città in mano loro,
Noto, era caduta da quasi un secolo. Un pugno di contadini indigeni, siciliani
fra siciliani, islamizzati due secoli prima ed ora decisi a resistere alla
forzosa riconversione al cristianesimo, si rifugiano qui, sulle scoscese pendici
del monte Barbaro, nel sito dove già visse la Segesta degli Elimi poi devastata
dai Vandali, e vi riportarono la vita dopo l’abbandono. Sorse così Qal’at
Barbari, Calatabarbaro, e questa moschea. Questi “giapponesi” dell’Islam, non
vogliono prendere atto d’aver perso la guerra e la Sicilia; sperano per cent’anni
ancora d’aver trovato il luogo per poter sopravvivere. Ma è solo una speranza, e
dopo un secolo anch’essi dovettero abbandonare quel luogo e la Sicilia, “vuote
le mani, ma pieni gli occhi del suo ricordo”, come Ibn Hamdis, il poeta di Noto,
piangeva la sua patria perduta.
Il tempo passa e anche noi dobbiamo lasciare Segesta e con l’autostrada, tra un
paesaggio che cambiava dalle aspre bellezze del versante tirrenico alle dolci
ondulazioni del versante “africano”, raggiungiamo Selinunte, dopo aver lambito
cittadine dai nomi evocativi d’antichi fasti e più recenti tragedie, come Salemi,
Gibellina, Santa Ninfa e Santa Margherita Belice.
Selinunte
E’ a
Selinunte più che a Segesta, forse per quell’orizzonte africano che si intuisce
al largo di quel mare scintillante e silente, di fronte ai templi maestosi
dell’antica città greca, che la nostra giornata comincia ad assumere il senso di
un pellegrinaggio verso le nostre radici. Infatti, mentre ammiravamo a bocca
aperta quei templi, ci sono tornate alla mente le parole che Papa Benedetto XVI
aveva pronunciato solo pochi giorni prima, e cioè che le radici culturali
dell’Europa sono greche e cristiane.
Ed eccoci dunque al cospetto della nostra prima radice, la cultura greca, che
qui sentiamo viva come non mai. Grazie alla sapiente ricostruzione del secolo
scorso, quei templi, tornati a stagliarsi sull’orizzonte marino, ci riportano ai
tempi in cui i greci provenienti dal mare, fondavano colonie sulle coste di
Ausonia - dimenticato nome del nostro Sud - e di Sicilia, da Brindisi a
Siracusa, da Agrigento a Napoli, e con le colonie impiantavano i semi della loro
civiltà che, se pur limitata alle coste, comunque avvierà quella osmosi
culturale con le popolazioni italiche dell’entroterra dando origine alla
gloriosa storia e civiltà italiana.
Tutti noi “italiani”, leghisti e romani, musulmani e atei devoti, di fronte ad
un tempio greco, sentiamo un qualcosa di indefinibile dentro, qualcosa che esula
dalla bellezza, dall’arte, dall’architettura, qualcosa che non sentiremmo mai
davanti ad un pur bellissimo tempio buddista o ad una piramide, qualcosa che si
può provare solo davanti a nostra madre o al ricordo di lei. Ed infatti la
civiltà greca è nostra madre, la nostra radice, la sublimazione dell’esistenza
dei nostri avi.
Nei secoli scorsi, tanto i cristiani che i musulmani hanno tentato di
appropriarsi di questi templi, trasformandoli di volta in volta in chiese e
moschee, ma salvo rari casi – ci viene in mente il duomo di Siracusa,
sapientemente sovrapposto ad un tempio greco ancora visibilissimo – detti templi
si sono sempre scrollati di dosso la sovrastruttura che non gli apparteneva
perchè la loro natura intima è quella di “templi della civiltà umana”.
I templi di Selinunte non conobbero quest’affronto snaturante perchè furono
distrutti a bella posta dai segestani già prima di Gesù e di Mohammad. Ne
restarono in piedi solo poche colonne tra mucchi di rovine, in secolare attesa
che l’uomo moderno li rimettesse in piedi, pietra dopo pietra, come si fa con i
tasselli di un puzzle. Quando i musulmani arrivarono in questi luoghi e videro
quelle colonne ancora in piedi tra le rovine, le scambiarono per idoli di pietra
innalzati dagli antichi. Da qui deriva il nome di “al-Asnam”, appunto “gli
Idoli”, che essi diedero al luogo.
Proviamo difficoltà a staccarci da Selinunte. Ci voltiamo più volte indietro,
per un ultimo sguardo, un’ultima foto a quel panorama di mare e colonne, di
agavi ed erbe dagli intensi profumi, come colui che si accomiata a malincuore da
una persona cara che per tanto tempo aveva perduta.
Marinella
E ci
dirigiamo verso Marinella, la borgata marinara prossima a Selinunte e che in un
certo senso ne è l’erede. E’ una borgata senza monumenti né bellezze, ma con il
fascino della sicilianità più autentica. Adagiata sulla costa del mare africano
che luccica al sole di mezzogiorno,
dai suoi spalti si può immaginare di intravedere la dirimpettaia costa e i suoi
mille battelli che da secoli traghettano guerrieri e santi, immigranti ed esuli,
conquistatori e conquistati, pescatori e mercenari di ambedue le sponde ed in
ambedue i sensi.
E d’improvviso, questa che credevamo terra di periferia, estremo lembo d’Italia
e d’Europa, ci appare per quella che realmente è: centro del Mediterraneo, di
una civiltà unica e di un popolo unico, di cui la Sicilia è patria per
eccellenza.
Santa Margherita Belice
A pochi
chilometri da Marinella c’è Santa Margherita Belice – Manzil as-Sindi – il
casale dell’Indiano. Ci sovviene che anche l’imam Khomeyni era detto as-Sindi,
l’Indiano, per via delle sue origini del sub-continente: in Sicilia la
globalizzazione era arrivata già allora!
In questo centro, fino al 1968, anno del rovinoso terremoto del Belice, c’era
una chiesa, San Calogero, che sorgeva sulla struttura di una antica moschea di
cui conservava ancora integro il minareto. Abbiamo rintracciato il sito, ma
della moschea, della chiesa e del minareto non c’è più traccia. Ma grazie al
fedele dipinto di un artista locale abbiamo potuto “vedere” la chiesa e
constatare l’incredibile somiglianza tra il minareto di San Calogero e quello di
Vico de’ Sabini a Lucera.
Se
qualcuno ancora dubitava della natura islamica di questa vetustà lucerina, ora
spero si ricrederà. Anzi, considerando che i musulmani lucerini erano stati
strappati a questa terra, da Alcamo, Jato, Salemi, Santa Margherita, e colà
deportati, allora non possiamo non vedere nel minareto lucerino la volontà di
quegli esiliati di ricreare un angolo di Sicilia nella loro nuova terra di
Capitanata per lenire il dolore della lontananza e dell’esilio.
Diversi ambasciatori dei sovrani d’Africa tentarono invano di convincere
Federico a far rientrare quegli esuli alle loro terre e alle loro case, ma fu
tutto inutile. Essi dovettero accontentarsi di cantare la loro struggente
nostalgia:
“O vento, quando apporti la pioggia a ricreare i campi assetati,
Spingi verso di me i nugoli asciutti, ch'io li saturi col pianto mio!
Bagni il mio pianto quel terreno dove passai la giovinezza: ah, che nella
sventura sia sempre irrorato di lacrime!
O vento, che tu corra presso alle nubi, o che te ne scosti, non lasciar, no, che
asseti certa collina del caro paese!
La conosci tu? Se no, [sappi] che l'ardor del sole vi fa olezzare i [verdi]
rami.
Qual meraviglia? In que' luoghi gli intelletti d'amore impregnan l'aria di lor
profumi.
Lì batte un cuore sì pieno [d'affetto], ch'io v'ho attinto tutto il sangue che
mi corre nelle vene.
A quelle piagge riedon sempre furtivi i miei pensieri, come il lupo ritorna
[sempre] a sua boscaglia.
Quivi fui compagno dei lioni che correano alla foresta: quivi andai a trovar le
gazzelle in lor covile.
Dietro a te, o mare, è il mio paradiso: quello in cui vissi tra' gaudii, non tra
le sventure!
Vidi lì spuntar l'aurora [della] mia [ vita] ed or, a sera, tu me ne vieti il
soggiorno!”
Mazara del Vallo
Col cuore
stretto da queste nostalgie, percorriamo il breve passo che da Marinella conduce
a Mazara. Mazara del Vallo – Mazar-al-Waliyu, la tomba, il santuario del
Maestro! Il nome basta ad evocare un tempo mitico ormai perduto. Nel nome di
questa città come in quello della sua omonima afghana, Mazar-e-Sharif, c’è un
riferimento all’Imam ‘Ali: egli era il Waliyu, il Maestro dei musulmani, egli
era lo Sharif, il Nobile per antonomasia!
Entriamo in paese con facilità e ad intuito raggiungiamo la piazza sul mare,
quasi che conoscessimo già questi luoghi. La piazza è intitolata a Mokarta,
distorsione del nome di quel Muktar che invano cercò di riconquistare la sua
piccola capitale perduta.
Vana è la ricerca di qualche traccia della moschea là dove ora sorge la
Cattedrale: a parte qualche tratto di mura d’epoca normanna e l’impianto
planimetrico, altro non vediamo. La sovrapposizione dell’edificio spagnolo ha
purtroppo cancellato tutto. Ma addentrandoci nei vicoli dell’antica medina
araba, tra i volti scuri dei mori, eredi degli antichi musulmani mazaresi, e le
loro donne velate, ci imbattiamo d’improvviso in San Nicolò Regale che ha per
noi l’effetto di una apparizione, di una rivelazione. Essa è una splendida
chiesetta arabo-normanna, piccola, a pianta quadrata con cupola, orientata verso
la Mecca, insomma un edificio sacro double-face, buono per tutte le occasioni!
Ma, aldilà di questo suo carattere anche islamico della chiesetta, è il suo
essere chiesa che ci colpisce. Qui, davanti a San Nicolò Regale, comprendiamo
che il cristianesimo, pur superato dalle nostre scelte religiose, razionali o
istintive che siano, resta sempre nel nostro DNA. Esso, che ci piaccia o no, è
la seconda delle nostre radici, dopo – in ordine di tempo - della cultura greca.
E’ questa chiesetta a farcelo comprendere, molto più delle scenografiche e
ridondanti cattedrali barocche di cui la Sicilia e Ausonia è piena tutta, a cui
forse siamo più abituati e da cui siamo più disillusi.
San
Nicolò Regale, gioiellino arabo normanno, piccola e graziosa, semplice ed
austera, pura ed armoniosa, ci ricorda la descrizione delle donne siciliane
dell’XI secolo tramandataci da uno dei tanti poeti a quel tempo partiti
dall'altra sponda del Mediterraneo: “all'aspetto sembrano musulmane, parlano
arabo correttamente, si ammantano e come quelle si velano”. Musulmana o
cristiana? Pudiche e serie come sono, quelle donne e questa chiesa, non è dato
sapere, tutte figlie splendide di quest’ammirevole civiltà siciliana e
mediterranea. Questa chiesa, più che le altre, ci fa sentire vicini al
Cristianesimo perchè rappresenta appunto gli ideali più alti di questa fede,
splendida quando è umile e rifugge quelle tentazioni di dominio e di arroganza
che in altre epoche l’hanno purtroppo connotata e guastata. San Nicolò ci parla
di un tempo in cui la Cristianità aveva si il potere in Sicilia, ma lo
esercitava con benevolenza verso tutti i suoi sudditi, della croce e della
mezzaluna, e questi interagivano fra loro in una osmosi che si materializzava
nei monumenti che venivano elevati al Dio di tutti loro. Siamo sicuri che se
qualche moschea fosse sopravvissuta alla furia islamoclastica dei secoli
successivi, essa si sarebbe mostrata con le stesse caratteristiche di San
Nicolò, tanto che solo uno sguardo ravvicinato ed indagatore avrebbe permesso di
distinguere il tempio islamico da quello cristiano.
Oggi, a Mazara, moschee non ce ne sono più – se ci sono, sono i soliti, semplici
locali utilizzati, come ormai in tutta Italia, come luoghi di preghiera.
Tuttavia nei suoi vicoli, nei suoi odori, nel cuscus di pesce che abbiamo
gustato a Marinella – piatto tradizionale della zona e non frutto della
globalizzazione moderna -, nei volti degli immigrati maghrebini, gli arabi di
ritorno che abbiamo visto un po’ ovunque nelle vie, nelle loro donne, velate o a
capo scoperto, con le lunghe tuniche tradizionali, silenziose se sole o vocianti
se in gruppo, che s’aggirano affaccendate tra i vicoli della casbah, l’antico
quartiere che secoli orsono ne ospitò gli avi e che ora ne ha ritrovato i
pronipoti, in tutte queste cose insieme, sentiamo fortissimo il richiamo delle
radici islamiche italiane.
Questa terza radice – terza sempre in ordine di tempo- noi musulmani la sentiamo
fortissima, viscerale. Molti oggi la riconoscono solo intellettualmente,
tributando al mondo arabo-islamico il merito d’aver rigenerato la civiltà
europea dopo il grande sonno che seguì il crollo della civiltà greco-romana.
Purtroppo tanti altri la disconoscono, la aborriscono persino, ma questa è
un’altra storia. Se si ignorano le radici islamiche dell’Europa, la colpa non è
unicamente del tempo. Ben sappiamo che il controllo della memoria è questione
eminentemente politica. Gli storici europei del XIX secolo, in conformità al
nascente eurocentrismo nazionalista, occuparono gran parte del loro tempo a
cancellare il ricordo delle influenze arabe riducendole al puro aspetto militare
e dello scontro. Altrimenti, perchè oggi, mentre tutte le reminiscenze
architettoniche sono catalogate e adeguatamente segnalate, a Lucera il minareto
di Vico de’ Sabini e la moschea del castello sono rigorosamente ignorati e
mantenuti nell’anonimato? Ciò è ancor più vero in questi ultimi anni, quando una
considerevole fetta del mondo politico e dell’informazione, in sostegno del
traballante atlantismo, cerca di accreditare un presunto scontro di civiltà con
l’Islam dipingendolo come incompatibile con il nostro mondo “occidentale e
moderno”. Invece l’Islam è nelle nostre radici, nel nostro sangue, nella nostra
anima, ci piaccia o no. E questo viaggio ce lo ha rivelato, ammesso che ce ne
fosse stato bisogno.
Trapani
La
successiva tappa a Trapani ci apre un altro squarcio a riguardo. Ci arriviamo
nel tardo pomeriggio, dopo aver attraversato Marsala – Marsa Alì, il Porto di
Alì – e dopo aver corso tra le saline con le Egadi da un lato ed il promontorio
di Erice sullo sfondo ad indicarci la strada. Il paesaggio del territorio
trapanese è oggi punteggiato di mulini a vento, così come un tempo dovette
essere punteggiato di minareti.
Le tenebre incombenti e la squisita ospitalità del fratello Salman e della sua
splendida famiglia, ci impediscono di carpire qualche aspetto architettonico
della città per arricchire vieppiù questo articolo, ma non ce ne rammarichiamo
più di tanto. Non c’è solo l’architettura a parlarci di Islam, ma anche la
società: siamo ospiti di una famiglia musulmana trapanese e questo basta e
avanza; è un segno da cogliere, quello della riparazione storica!
Infatti, dalle pagine di Ibn Jubayr, leggiamo che – siamo nel 1183 – “gli
abitatori (di Trapani) son musulmani e cristiani. Ciascuna delle due parti ha i
suoi templi: moschee e chiese. La luna nuova del mese di Shawwal comparve la
notte del sabato 5 gennaio, secondo la testimonianza prodotta presso l’hakim
(giudice) di Trapani. Indi la gente festeggiò il compimento del Ramadan. Noi, in
questa santa festività, facemmo la preghiera in una delle moschee di Trapani
insieme a quei cittadini che per causa legittima erano impediti di andare al
musalla (luogo di preghiera all’aperto). Pregammo la preghiera dei viandanti. La
gente uscì alla volta del musalla e se ne tornò al suono di tabelle e di corni.
Si che noi facemmo le meraviglie ed anco della tolleranza dei cristiani che
stavano lì a guardare”.
Questa era l’ideale condizione di allora. Quel che avvenne poi – le persecuzioni
manifeste o subdole che spinsero molti musulmani ad emigrare verso l’Africa,
fino alla deportazione totale, i casali abbandonati, le moschee lasciate
deserte, il paesaggio stesso della Sicilia spogliato dei suoi figli e delle loro
abitazioni - preferiamo dimenticarlo. Preferiamo soffermarci sulla condizione di
oggi: l’ospitalità offertaci da una famiglia musulmana trapanese! Ci piace
crogiolarci sui racconti del primo giorno di scuola del piccolo Hassan che ha
incontrato tra i banchi un piccolo amico-fratello, Muhammad, figlio di bengalesi,
che la maestra ha fatto sedere con lui nello stesso banco. Ci piace deliziarci
della voce della piccola Nur, che dopo la salat recita la salawat (benedizione)
per il Profeta e la di lui famiglia. Ci piace pensare che, se volessimo,
potremmo scendere ed andare a compiere la preghiera del tramonto in moschea,
dove incontreremmo il popolo musulmano trapanese, indigeno e d’importazione. Ci
piace onorare la tavola imbandita da due autentiche nobildonne siciliane, la
moglie e dalla madre di Salman, le quali non hanno mancato di prepararci le
pietanze più gustose e tipiche della cucina siciliana. Per una riparazione
storica, ce ne abbastanza, Ibn Jubayr può riposare tranquillo nella tomba,
almeno per ora.
Lasciamo Trapani soddisfatti di questa giornata che ricorderemo a lungo. Ormai
il nostro soggiorno siciliano volge al termine. Domani si parte per Palermo
dove, nel tardo pomeriggio, una nave ci attende per riportarci in continente, a
Napoli, alla nativa Ausonia.
Palermo
L’indomani mattina, col magone della partenza, ripercorriamo a ritroso
l’autostrada che all’andata avevamo percorso con tanto entusiasmo. Salutiamo
Alcamo rivolgendole un ultimo sguardo dallo specchietto retrovisore. Salutiamo
il castello di Calatubo – Qalat al-Ayyub – sulla nostra destra, salutiamo
Balestrate, Carini, Cinisi, Capaci, le alte montagne che occhieggiano al mare e
giungiamo a Palermo per gli ultimi scampoli di questo “pellegrinaggio”.
In
cattedrale abbiamo l’occasione di compiere la visita alle tombe reali, e ci
commoviamo davanti a quelle di Ruggero II e di Federico II. Ruggero fu colui che
creò politicamente il Regno di Sicilia, il più bel Regno del mondo. Egli ereditò
le bellezze e la civiltà dell’emirato di Sicilia e seppe meritare tale eredità
rendendolo ancor più bello e trattando equanimamente i suoi sudditi, musulmani e
cristiani.
Toccare la tomba di Federico, poi, ci regala un’emozione unica. E’ da almeno
trent’anni che peregriniamo per i suoi castelli, là dove aleggia la sua anima
inquieta, nel tentativo di avvicinarci a lui, di rivivere il suo tempo. E oggi
siamo qui davanti alla sua tomba, davanti a lui! Certo è una grande
contraddizione, della quale non riusciamo a capacitarci, che sia stato proprio
lui a strappare i figli di questa terra alla loro dolente madre, a relegarli
nella lontana Capitanata, cacciandoli in una trappola che doveva poi rivelarsi
mortale, in quel tragico ferragosto del 1300, a impedire fermamente che
tornassero nei loro luoghi natii, sordo a tutti gli accorati appelli. Certo era
suo diritto stroncare la ribellione, ma avrebbe dovuto piuttosto rimuoverne le
cause e renderseli amici e fedeli, come poi seppe fare a Lucera, ma lì in
Sicilia, a casa loro, e non in esilio. Chissà come sarebbe stata oggi la
Sicilia...
E invece non fu così. Tuttavia, mai come con lui, l’Islam fu apprezzato e
riconosciuto nel Regno di Sicilia, e questo non lo dimentichiamo. Salve
Federico, siamo qui davanti a te, accarezziamo la tua tomba e recitiamo sommessi
una Fatiha nel caso fossero vere quelle voci che ti vollero segretamente
musulmano. “Oh Dio di tutti noi, rendigli leggero il supplizio della tomba e fa
che al suo risveglio possa ritrovarsi con coloro che egli apprezzò ed amò! Amin”.
Dalla Cattedrale, per caso, senza volere, ci ritroviamo in quello che a prima
vista sembrava un mercatino e che invece mano mano si rivelava per quello che
era: l’anima stessa del centro storico di Palermo, il Mercato del Capo. Posto
nel cuore di quello che era il Sari-al-Qadi, il rione del Cadì, il palermitano
Seralcadio, ventre antico della Palermo islamica, ha saputo mantenere, con il
suo intricato labirinto viario, l’aspetto proprio di un suq orientale, tanto
opulento e magnifico quanto decadente e confuso. Lo stretto budello che si
allarga e si restringe tra le bancarelle, in un progredire di stupore e
meraviglia, ci strappa la considerazione che sembra proprio di essere a Fes, in
un reticolo altrettanto intricato nel quale, diversi anni fa avemmo paura ad
entrare. La stessa paura ci prende anche qui, ma la vista di tante tranquille
coppie di biondi turisti “nordici” ci rassicura, e ci lasciamo portare da quelle
bancarelle illuminate che ci conducono pian piano all’altro capo del centro
storico, in via Roma. La cosa che più ci colpisce è che i venditori sono un
perfetto equilibrio di palermitani ed extracomunitari, o se volete, per
adeguarci al resto del racconto, di cristiani e musulmani, ma anche indù e
buddisti, perchè oltre a senegalesi, marocchini, pakistani e bengalesi,
abbondano anche indiani e cinesi.
L’atmosfera
“globale” che si respira è intensa. Al banco dei bar, di tutti i bar – laddove
da noi si servono solo caffè – operai ed ambulanti consumano abbondanti porzioni
di lasagne e zitoni alla siciliana (quanta pasta si mangia qui!!). Una ragazza
maghrebina è intenta, davanti all’uscio della sua casa, a tingersi le mani con
l’hennè e, a nostra richiesta, non lesina spiegazioni a riguardo. Una donna
indiana in sari compra frutta da un banco ricolmo di frutti coloratissimi. Una
somala acquista vestiti da una cinese. Sulla strada e dalle traverse
occhieggiano architetture sacre e profane cadenti e bellissime che fanno da
quinta perfetta a quello spettacolo di popolo. Abbiamo l’impressione che proprio
il “ritorno” del popolo del Mediterraneo, scacciato secoli orsono dalla porta e
ora rientrato dalla finestra, abbia ridato nuova vita quella strada e a tutto il
centro storico, altrimenti fatiscente e in abbandono.
Intuiamo che in quell’intrico non può mancare la moschea. Dopo un paio di
tentativi falliti, la troviamo a intuito in un vicolo trasverso: è l’ex-chiesa,
ex sinagoga, di San Paolino dei Giardinieri, concessa dal Comune alla comunità
musulmana. Sulla porta c’è una targa con la scritta – troppo piccola – “Masgid
Balerm” (Moschea di Palermo), solo in arabo. Ma dalle vecchie foto si vede come
prima campeggiava anche la scritta “Moschea” in italiano. Cos’è? Un nuovo
tentativo di far dimenticare che l’Islam è anche italiano?? Boh!
Quando sbuchiamo su via Roma, ci sentiamo come ubriachi di tanta umanità, e
profondamente soddisfatti e riconciliati con la storia e l’attualità altrimenti
deprimente. Ah Palermo, ti sto per lasciare e già mi manchi!
Ci fermiamo anche noi a mangiare in un ... bar (all’aperto, in compagnia di
tanti impiegati di banca in pausa pranzo). Rifocillati, ci dirigiamo a quella
che sarà la nostra ultima meta: la Zisa.
Diversi anni fa, era il 1980, visitammo per la prima volta Palermo – questa è la
seconda volta – e trovammo la Zisa in condizioni penose, a malapena visibile tra
anonimi fabbricati fatiscenti, e bisognava lavorare molto di fantasia per
riuscire a immaginare il perchè di quel nome: “al-Azizah”, la Splendida.
Oggi, quando l’abbiamo vista, siamo restati a bocca aperta: la Zisa è riemersa
dall’oblio dei secoli e può gareggiare a pieno titolo con gli altri palazzi
reali e storici sparsi per l’Italia. Un altro tassello per la piena riparazione
storica: uno splendido palazzo arabo-normanno riemerso dalle tenebre in cui era
sprofondato, a testimoniare il periodo aureo della sua costruzione (purtroppo il
pensiero va al palazzo federiciano di Foggia che è forse l’ultimo a non riuscire
a riemergere da tali tenebre – Foggia è sempre ultima in Italia in molti, troppi
campi).
La
Zisa è stata stupendamente restaurata e con essa – e questo è ancor più
stupefacente – è stata ripristinata anche la scenografia esterna, fatta di
grandi aree a verde e di fontane che escono dal portale del palazzo e
attraversano i rigogliosi giardini ricreati sul davanti e persino sul retro,
frammenti non piccoli di quel mitico parco del Genoardo – Jannatu-l-‘Ard, il
Giardino del Paradiso, di normanna memoria. Tale parco si estendeva fino ad
inglobare al suo interno anche i padiglioni della Cuba, anch’esso restaurato
internamente ed in corso di “liberazione” dal marciume architettonico che lo
circonda, della Cubula e dell’Uscibene, per i quali anche ci giungono voci di
restauri e ripristino di altri frammenti di parco al loro intorno. Idem per
l’altro palazzo arabo-normanno della Favara – al-Fawarah, la sorgente d’acqua –
detto anche di Maredolce.
All’interno della Zisa, un oggetto – tra quelli esposti – attira la nostra
attenzione: si tratta del cippo tombale della madre di un sacerdote cristiano,
ritrovata a Santa Margherita Belice. La cosa interessante di questo cippo è la
dedica funebre. Essa è scritta in 4 lingue: arabo, ebraico, latino e greco. E’
una sorta di stele di Rosetta. Se quella permise la comprensione dei segni
geroglifici e quindi di tutta la storia documentata dell’antico Egitto dei
Faraoni, questa stele permette invece di comprendere l’integrazione fra le
diverse culture della Sicilia del tempo. Essa è la testimonianza di quali siano
davvero le nostre radici: a parte l’ebraismo che per via della diaspora non
manca mai, esse sono la cultura greca, quella latino/cattolica, riconosciute da
tutti, ma anche la negletta cultura arabo-islamica. Essa a quel tempo costituiva
la trama, l’ordito che inquadrava tutte le altre culture e consentiva
l’esistenza di quel “tessuto” che ancora oggi fa spalancare la bocca di
meraviglia per bellezza e “resistenza”.
Questa è la verità, oggi che si fa un gran parlare di radici. Lo si sappia. Per
quanto tanti si siano affannati a tentare di cancellarla, essa è lì a imperitura
testimonianza di sè in questa lapide che ci è davanti in tutta la sua bellezza e
semplicità.
Davanti a questa lapide si riassume tutto il significato del nostro viaggio. Ci
piacerebbe che in un futuro non lontano i musulmani possano tornare in tutti i
paesi e casali della Sicilia da cui sono stati forzati ad andar via, e che siano
accolti dal generoso popolo siciliano come si accoglie un fratello perduto e poi
ritrovato. Ci piacerebbe che tutti i paesi apponessero, nei cartelli segnaletici
che si trovano all’ingresso di ciascuno di essi, il toponimo arabo sotto a
quello italiano, magari con il relativo significato.
Santa Margherita Belice |
منزيل ألسندي |
(Casale dell’Indiano) |
Ci piacerebbe che le autorità regionali favorissero e inquadrassero questo
ritorno, magari disponendo che in ogni paese venga realizzata una moschea,
magari ripristinando – ove possibile – quella che c’era, in modo da reintegrare,
anche nei segni architettonici e nel paesaggio, quella multiculturalità che è
propria a queste terre. Ci piacerebbero tante cose, e se Dio vorrà...
Quando la nostra nave si stacca alfine dal molo di Palermo, illuminata dalle
luci della sera, ci sentiamo infinitamente tristi, ma tuttavia arricchiti nella
nostra umanità e rafforzati nella cultura e nell’identità. E non sono proprio
queste cose – umanità, cultura, identità – che sono venute terribilmente a
mancare – lo ha detto Benedetto XVI – all’Occidente di oggi?
Grazie, Sicilia, che Dio ti benedica; ci hai regalato davvero un bel viaggio!
Al-hamdulillah!.