Islam a Foggia

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Id al-Fitr 2007 a Foggia

 

Quando la mattina di venerdì 12 ottobre, lavato e  ben vestito, sono sceso di casa e, con la mia stuoia di paglia ben arrotolata sotto il braccio, mi sono diretto a passo svelto verso Parco San Felice, quasi me la ridevo. Mi sembrava di essere nella scena descritta da Ibn Jubayr, un viaggiatore arabo nella Sicilia medievale, quando si trovò a Trapani durante una Id al-Fitr di tanti secoli orsono:

 

“La nuova luna di questo mese comparve la notte del sabato, cinque gennaio (1185), secondo la testimonianza prodotta presso l’hakim (giudice) di Trapani. La gente uscì alla volta del musalla (luogo aperto prescelto per la preghiera) col magistrato preposto, e se ne tornò (dopo la preghiera) al suono di tabelle e di corni. Della qual cosa noi facemmo meraviglie per la tolleranza dei cristiani che stavan lì a guardare” (Ibn Jubayr, Viaggio del Kinani).

Palermo – Id al-Fitr oggi, col Monte Pellegrino che sorride nel rivedere i figli perduti

 

Viaggiavo nel tempo. Sulle ali magiche di questa festa, volavo nella Trapani mezza musulmana di otto secoli fa, a rivivere i bei tempi perduti del periodo normanno del Regno di Sicilia. Si, erano passati otto secoli da allora e i musulmani di Ausonia e Sicilia ne hanno vissute di traversie, ma grazie a Dio, oggi, XXI secolo dell’era cristiana, XV secolo dell’Egira, c’è un musulmano foggiano che si reca al musalla di parco San Felice per celebrare insieme ai fratelli di fede la fine del digiuno di Ramadan.

E’ per questo che quasi me la ridevo. Sono un appassionato di storia, l’avrete capito, e per me la storia non è una pagina morta, ma materia viva, tanto viva da intrecciarsi del continuo con il vissuto quotidiano. E questa mattina stavo assaporando il dolce gusto della riparazione storica: l’Islam, scacciato dalla porta dalle terre di Ausonia e Sicilia, è rientrato dalla finestra, una finestra che non è soltanto immigrazione, ma anche richiamo del sangue di quei nostri progenitori che furono scacciati, esiliati, offesi, fatti schiavi, costretti all’abiura, ma che mai cessarono di credere nel Dio Unico e nel suo Profeta Mohammad.

 

“Vivo da 14 secoli,

dall’Arabia alla Persia, da Cordoba a Mazara,

di generazione in generazione discepolo del Profeta,

esiliato, profugo, sempre straniero nella mia terra.

 

Strappato alla mia Sicilia,

dov’è ancor la mia casa, abitata dai rovi,

divenni straniero in Andalus, nella Granata che io edificai,

e ogni giorno muoio di nostalgia per la mia patria.

 

Oggi son tornato, oh madre,

dove mi guardavi da fanciullo, settecento anni fa,

giocare a inseguir lucertole, sotto la torre sveva,

mentre dabbasso il grano ondeggiava nel vento caldo del Tavoliere”.

Id al-Fitr a Napoli, davanti alla chiesa del Carmine, dove riposa Corradino di Svevia

 

Ma l’Islam a Foggia non è cosa nuova.

Quando in quel tragico 15 agosto del 1300 l’usurpatore angioino entrò con l’inganno dentro le mura della Lucera saracena, mise quei che erano sopravvissuti dei suoi stremati abitanti di fronte ad una scelta: abiurare o morire. Molti scelsero la morte, che li raggiunse dopo la loro ultima sortita per riprendersi la città: “I Provenzali li uccidono come per giuoco, e agli uccisi alle volte spaccano sghignazzando lo stomaco per mettere allo scoperto la poltiglia del poco trifoglio strappato e divorato eludendo la sorveglianza…”. (Giuseppe Ungaretti, Le prose daunie).

Altri invece scelsero l’abiura, nell’intima convinzione di riuscire a conservare la fede nel proprio cuore, in attesa che passasse la nottata. Tra costoro vi era la tribù di Abdel-Aziz. Spogliati di tutte le loro proprietà e dei loro averi, vengono scortati nella vicina Foggia, dove ottengono di potersi costruire dei capanni di fortuna a ridosso di quelle che una volta erano le mura nord della città, sull’attuale via Manzoni, da dove la loro Lucera appariva e scompariva alla vista, come un miraggio. E’ così che nacque Borgo Croci, Piazzetta dell’Olmo, Vico del Turcasso, Vico Labirinto, Via delle Frasche. Fu così che nacquero i Terrazzani, una tribù di agricoltori senza terra, che si adattò a vivere dei frutti selvatici di quella stessa terra che la loro maestria seppe far ricca e che la negligenza di chi li schiavizzò ridusse a deserto.

Borgo Croci a Foggia

 

Ma fu vera abiura? E’ possibile inculcare con la costrizione credenze altrimenti non condivise?

Nel museo Fiorelli di Lucera c’è il calco di una pietra tombale ritrovata nelle campagne foggiane da cui spira – come notò il viaggiatore e scrittore inglese Norman Douglas - un aura di nobile rassegnazione:

 

“Nel Nome di Allah, il Misericordioso, il Compassionevole.

Allahumma, salli ‘ala Mohammad wa Ale Mohammad

(O Dio, possa Tu essere buono con Mohammad e con la Famiglia di Mohammad).

Questa è la tomba del capitano Yahya al-Busas, possa Dio essere Misericordioso con lui.

E’ spirato verso il messodì di sabato del giorno 5 del mese di Moharram dell’anno (dell’Egira) 745 (5 aprile 1348).

Possa Allah mostrarsi misericordioso con colui che legge”.

 

Erano passati 48 anni dalla deportazione, mezzo secolo vissuto nella vergogna dell’ abiura e nel terrore di una dura inquisizione, ma non erano bastati per sradicare l’Islam dalla terra di Capitanata e dal cuore dei suoi fedeli. Per questo povero shiita (la formula riportata nella lapide “Allahumma salli ‘ala Mohammad wa Ale Mohammad”, è tipica degli shiiti), discepolo devoto del Profeta e dell’Imam ‘Ali, non era stata vera abiura, ma solo “taqiyah”, dissimulazione. Il Profeta approvò questa prassi quando ‘Ammar ibn Yaser, uno dei suoi Compagni della prima ora, di fronte alla prospettiva della morte che stava per essergli inflitta dai miscredenti della Mecca, abiurò, salvo chiedere poi, in lacrime, il perdono del Profeta che non mancò. Dunque, questo shiita foggiano del Trecento, chiese probabilmente d’essere sepolto fuori città, tra i biondi campi di grano del Tavoliere, con il viso rivolto verso la Mecca, per poter essere musulmano almeno da morto, per sentirsi chiamare con il suo vero nome da chi fosse venuto a visitare la sua ultima dimora. Esule nella sua terra fino all’ultimo, anche ora che non era più. 

Ne son passate di nottate per la tribù di Abdel-Aziz, così tante che prima i suoi figli, poi i suoi nipoti, oggi i suoi discendenti, hanno dimenticato l’Islam dei padri e si sono integrati nella cultura religiosa della città, restando tuttavia sempre un po’ “diversi” (e qualcuno – lo studioso foggiano Angelo Capozzi ne ha raccolto testimonianza – ha ereditato la memoria di discendere dagli arabi di Lucera!).



 

Id al-Fitr a Foggia

 

Questi sono gli antefatti della festa di oggi. I fratelli maghrebini, pakistani, macedoni, albanesi, eritrei ed anche italiani, presenti alla celebrazione, probabilmente non sapevano nulla di questa storia. La loro intenzione, in questa umida mattina di ottobre, era solo quella di ringraziare il Signore dell’Universo di aver dato loro la fede e la forza per riuscire a digiunare per un mese intero, da ogni alba ad ogni tramonto di ogni suo giorno.

Ma la memoria storica è viva e difficile a cancellare. La conservano quelli che sanno, la conservano le pietre spezzate della rocca di Lucera, i campi di grano del Tavoliere, le umili case di Borgo Croci. La conserva il cratere che si è creato nel centro di questo quartierino arabo-foggiano a seguito dell’esplosione di una bombola di gas in via delle Frasche, che si portò via otto vite, spazio che il Comune ha appena terminato di sistemare a “piazza”.

Questo spazio sembra voglia essere come la baia del porto di Palermo o l’emiciclo di Piazza Mercato a Napoli: le braccia spalancate di una madre che vuol riabbracciare i suoi figli perduti.

Come sarebbe bello, fratelli, se la prossima festa, anziché a Parco S. Felice, luogo tranquillo ma senz’anima e senza capacità evocative, potessimo celebrarla in questo nuovo spazio di Borgo Croci. Sarebbe un evento memorabile. Dopo otto secoli di esilio l’Islam foggiano tornerebbe laddove è nato: tra le braccia di sua madre.

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